Qualche mese fa il mio caro amico Francesco ha inaugurato la sua bella libreria Mondadori in Piazza della Rocca a Viterbo. Quale migliore occasione per andarlo a trovare e fare una scorta di buone letture. Fra i tanti titoli accattivanti, Andrea, zio di Francesco e compagno di mille avventure di anni passati, a piedi e in autostop, sulle montagne e lungo i sentieri, mi mostra il libro di Cognetti Le Otto Montagne, fresco vincitore del Premio Strega 2017. Accetto il consiglio ma non inizio subito a leggero: ho sempre avuto un po' di istintiva diffidenza verso i libri premiati.
Un paio di settimane fa, facendo un po' d'ordine, mi ritrovo il libro fra le mani. Inizio a sfogliarlo, mi incuriosisco e poco dopo mi appassiono e in un paio di giorni mi ritrovo ad elaborare, come fosse un lutto, la conclusione della storia appena letta. I personaggi mi hanno talmente colpito e affascinato e li ho sentiti così "vicini" che mi è costato doverli abbandonare.
Quella che viene raccontata con una scrittura semplice e potente è la storia di un'amicizia; la storia del rapporto difficile fra un padre e un figlio; è una storia di montagna vissuta da chi in montagna c'è nato e ci resta, Bruno, e di chi, arrivando dalla città, Pietro, ci torna ogni anno, ogni estate con i genitori e poi, adulto, da solo.
La montagna, in tutte le vicende narrate, non è semplicemente lo sfondo meraviglioso e sublime, terribile e maestoso sul quale accadono le cose: la montagna è l'altro grande protagonista della storia. C'è la sua bellezza e la sua indifferenza, la sua generosità e la sua fredda crudeltà. La montagna è un modo di vivere, con lentezza e misura. Con pazienza e rispetto. Ogni giorno Bruno e Pietro per spostarsi dalla loro casa a oltre 2000 metri e giungere al paese a piedi, con l'aiuto di un asino per trasportare le cose pesanti, impiegano due ore ad andare e due a tornare. La montagna ha tempi diversi e opposti a quelli frenetici e affannati della città.
Le diversità che subito si palesano dei due amici bambini, poi ragazzi e uomini, li uniscono e li rendono in fondo simili. Bruno, nato e vissuto sempre sulla sua montagna è abituato ad stare solo e Pietro, cittadino, nei giochi con il suo amico e poi nei progetti di adulto, definisce la sua personalità, in un andare e tornare continuo, nella scoperta di nuovi monti, delle vette più alte di tutte: l'Himalaya.
Ed ogni monte ha i suoi miti e le sue conoscenze che si tramandano come sapere antico e prezioso. Saper fare il formaggio aggiungendo al latte il caglio che altro non è che un pezzo di stomaco di vitello. Chi ha scoperto che si fa così, con lo stomaco del vitello, chiede Pietro a Bruno, che risponde molto semplicemente "l'uomo selvatico": un uomo antico che viveva nei boschi, capelli lunghi e barba, tutto ricoperto di foglie: un po' bestia un po' uomo, un po' albero. L'omo servadro.
La bellezza e la forza di questo racconto di duecento pagine è fuori discussione. E adesso accadrà proprio come mi aveva pronosticato il mio amico Andrea consigliandomelo all'inaugurazione della libreria a Viterbo: dopo questo, dello stesso autore leggerai "Il Ragazzo Selvatico". Appunto il titolo del libro che mi sono regalato per Natale.