Abbiamo in questo testo curato da Walter Ghia, una
nuova traduzione e un illuminante saggio critico introduttivo di una delle
novelle più riuscite di Miguel de Cervantes.
Miguel de Cervantes Saavedra (1547-1616) – La
sua vita non ricalca quella di un accademico né quella di un uomo di corte. Nel
1569, per evitare una condanna, fugge in Italia; mentre ritorna in Spagna
(1575) è catturato dai Turchi e rimane per cinque anni ad Algeri. Dal 1587 è
commissario ai rifornimenti della flotta, e poi responsabile della riscossione
di imposte. Accusato di un ammanco, è imprigionato (1597) nel Carcere Reale di
Sevilla, dove concepisce per la prima volta l’idea del Chisciotte. Nel
dicembre1604 è terminata la prima parte del Quijote, nel 1613 compaiono le Novelas ejemplares, nel 1615 la
seconda parte del Quijote.
La storia di Cantuccio e Taglierino traduce Rinconete y Cortadillo, una delle più
ardite e gustose fra le
Novelas ejemplares di Cervantes. Il racconto descrive la dimensione
malavitosa sivigliana tra i secoli XVI e XVII. L’autore conosceva bene il
fenomeno, anche per precise circostanze biografiche.
Rinconete y Cortadillo è un’opera di
letteratura, ma si costruisce a partire da elementi di realtà, quando descrive
la cofradía
che impone il monopolio del crimine: il sodalizio è strutturato secondo regole,
prevede funzioni specifiche, attinge ad un rapporto di scambio con una parte
dei pubblici poteri, compie intimidazioni su commissione. Siamo di fronte,
oltre che a pagine straordinarie per ironia e vivacità linguistica, ad un
prezioso documento delle radici delle “organizzazioni criminali”.
La trama:
Siamo nel XVII
secolo; in una torrida giornata estiva due ragazzi dall’apparente età di
quattordici e quindici anni siedono per fare la siesta sotto il porticato del
Piccolo Mulino, un’osteria posta lungo la strada che dalla Castiglia conduce
verso l’Andalusia, nel punto esatto in cui si addentra ormai nella Sierra
Morena. Entrambi hanno il volto bruciato dal sole, gli occhi scavati dal caldo
e dagli stenti, la mani assai sporche e le unghie cerchiate di nero. Indossano
abiti logori e calzano scarpe malconce, uno porta una spada tronca e l’altro è
munito di un coltello da vaccaro. Non si sono mai incontrati prima, ma non
tardano a fare conoscenza. Il più giovane racconta di chiamarsi Diego Del
Taglio e di essere figlio di un sarto dal quale ha appreso il mestiere e se n’è
servito per scucire tasche e tagliare borse. Il più grande, invece, si presenta
come Pietro del Canto e rivela di aver rinunciato ad accostarsi al padre
nell’attività di banditore di bolle ecclesiastiche per guadagnarsi da vivere
barando al gioco delle carte. Sotto la spinta della comune condizione stringono
amicizia e si associano per spennare gli avventori delle locande non appena
saranno arrivati a Siviglia…
Composto
presumibilmente tra il 1601 e il 1605, il racconto ci consegna la vicenda di
due tipiche figure di picari: due ragazzi che hanno intrapreso la vita del
vagabondaggio e preferito ricorrere al furto e all’imbroglio invece di
dedicarsi a un’occupazione onesta. La loro identità è già tutta nel titolo
originale Rinconete y
Cortadillo, due diminutivi che fungono da soprannomi, dove Rincón
(angolo) rimanda all’agire di soppiatto e dunque metaforicamente all’attività
del baro, mentre Cortado (taglio) rinvia all’abilità di chi incide le borse con
la lama e dunque metaforicamente all’arte del furto. Ci troviamo dinanzi a un
racconto di un’emozione discreta ma che cattura l’attenzione per la descrizione
assai accurata del fenomeno della criminalità a Siviglia. E al termine della
lettura non restano dubbi né sul valore di questo grande scrittore, né sulla
suggestione della sua scrittura.
Di fatto l’opera di
Cervantes si iscrive appieno nel filone che, a partire dalla metà del
Cinquecento, produce numerosi testi
letterari dedicati alla descrizione del mondo dei poveri, degli emarginati e dei vagabondi. E appunto in
questa novella Miguel de Cervantes presenta due tipiche figure di picari: due
ragazzi che hanno intrapreso la vita del vagabondo, che preferisce ricorrere al
furto e all’imbroglio piuttosto di dedicarsi a un onesto lavoro.
Se però in alcuni
casi di questo filone letterario è possibile che gli autori fossero ben
informati sulla realtà sociale che presentano nei loro scritti, in altri ci
troviamo di fronte a rappresentazioni stereotipate oppure a racconti moraleggianti;
tanto che spesso i testi che parlano dei poveri ci informano non tanto sui
miserabili stessi, bensì sul modo in cui la comunità che deve rapportarsi con
loro li raffigura e li percepisce.
In questi testi troviamo alcuni
elementi costanti: si afferma ripetutamente che la maggioranza dei poveri sono degli impostori, che fin da piccoli
hanno imparato una vera e propria arte; che per la maggior parte i mendicanti sono degli abilissimi
attori, degli straordinari simulatori capaci di suscitare la pietà della gente;
in tal modo, senza faticare, diventano ricchissimi.
Inoltre, li si presenta
come organizzati in una vera e propria
contro-società, dotata di autorità, di gerarchie e di norme del tutto
diverse da quelle vigenti nel mondo rispettabile.
Nella Spagna del
cosiddetto secolo d’oro (1550-1650), la tendenza a porre al centro di una narrazione
un soggetto marginale si manifestò in modo particolarmente forte, al punto da coinvolgere
anche numerosi scrittori di notevole fama, primo fra tutti Miguel de Cervantes.
Nella letteratura
spagnola, il tipico vagabondo viene chiamato picaro, termine che
significa servitore, cioè figura di bassa estrazione sociale che si
mette al servizio di uno o più padroni, li imbroglia, deve fuggire e vive una
serie di avventure, prima di trovare una sistemazione più o meno dignitosa nel
mondo normale.
Molti degli scrittori che
si impegnarono nel genere picaresco diedero voce a una dilagante paura nei
confronti dei miserabili, al disprezzo
per gli emarginati e composero opere che, di fatto, servirono a
giustificare la politica di repressione sociale adottata dal governo.
Il picaro è spesso presentato come un individuo di origine infame:
è figlio illegittimo, oppure ha il padre ladro e la madre prostituta. Esce dalla comunità degli uomini
rispettabili, per intraprendere una vita disonesta. Alla base di tutto viene
posto l’ozio, la pigrizia, il rifiuto di guadagnarsi il pane con il sudore
della fronte; di conseguenza, il vagabondo
vive di espedienti e di piccole truffe, oppure si trasforma in ladro e
in mendicante imbroglione. L’unico valore che veramente conta è l’astuzia,
l’ingegno, la capacità di ingannare il prossimo. Il ritratto del picaro e degli ambienti in cui si muove è
generalmente impietoso: si utilizza uno stile descrittivo sì divertente ma
grottesco; le avventure sono appassionanti, le beffe o le fughe, il giudizio
sul mondo dei miserabili e dei vagabondi finisce per essere duro, improntato a severa condanna e scarsa comprensione della reale
disperazione di chi era costretto a vivere di espedienti.