Logorroico, disarmante,
irriverente, a tratti forse solo un po’ troppo compiaciuto, Antonio Pascale –
autore protagonista del romanzo – filosofeggia sull’esistenza, sulla felicità
(o sulla mancanza di essa), sul libero arbitrio, sull’amore, sulla morte,
mentre la vita volente o nolente attorno continua a scorrere, modificando il
senso del destino e delle storie di ognuno di noi.
Pascale descrive attraverso i
suoi occhi una oziosa Roma estiva, nella quale colloca il suo personale e
irrisolto dilemma esistenziale: dove risiede la felicità?
Senza dare troppa importanza
alla trama, rinunciando quasi alla stessa forma del romanzo, ci presenta un
testo fatto da racconti di vita vissuta degli attori, dai flash, dai sobbalzi,
dagli scossoni che quasi vengono incontro al lettore proprio come i personaggi
che si radunano attorno a lui. Vi troviamo un fiume di parole, dialoghi,
quesiti, interrogativi che sgorga dalle menti dei personaggi stessi e si fa
inevitabilmente e inesorabilmente alla fine trama, storia. Il tutto
caratterizzato da una tensione verso quella felicità a cui ognuno di loro – e
di noi – a proprio modo prova a dare un senso compiuto, con l’aggravante
(sentimentale o no) di non riuscire quasi mai a trovarla.
Antonio Pascale tratteggia
con ironia il nostro tempo. Attraverso episodi esilaranti e digressioni tanto
puntuali quanto svagate, ci colloca nel centro esatto del racconto, di fianco
al suo protagonista così nevrotico e contemporaneo, così sentimentale e forse
tragico.
“…Roma. Un tramonto di fine luglio al Gianicolo. Sotto i platani, a pochi
passi dalla statua di Garibaldi, c’è una panchina. Seduto su quella panchina ‒
il braccio disteso, l’aria pensierosa ‒ c’è un uomo. Le rughe intorno agli
occhi rivelano che è sulla cinquantina. Riflette, oppure guarda solo
distrattamente di fronte a sé. Moglie e figli sono partiti in vacanza e la
sonnacchiosa e languida serata estiva lo fotografa semplicemente lì, intento
nella tenue luce arancione a pensare alla felicità...”.