Avevamo visto La Grande Bellezza qualche tempo fa al
cinema. Il film, nella sua studiata lentezza, ci affascinò molto, ci piacque.
Ci piacquero le immagini di una Roma felliniana fra la notte e l’alba, le
parole dissacranti e del protagonista Jep Garbandella, la straordinaria bravura
degli attori.
Poi il film ha vinto l’Oscar ed è diventato qualcosa che
tutti devono vedere e conoscere e così è stato trasmesso in tv, dalla tv del
Gruppo della sua stessa casa di produzione, la Medusa. Il risultato è che "il padre ha
ucciso la sua stessa creatura", facendola a pezzi con la mannaia delle
pubblicità e allungandone i tempi fino ad orari eccessivi. Se fra i quasi nove
milioni di persone che hanno visto su Canale 5 La Grande Bellezza si potessero
contare coloro che si sono addormentati sul divano prima del finale i numeri
sarebbero sorprendenti e la colpa non è certo di Sorrentino e Servillo.
E non stupiscono i giudizi approssimati, troppo duri o
troppo morbidi, di chi ama o di chi ha odiato il film. Giudizi viziati da una
visione approssimativa e forzata dalla vittoria di un Oscar che non rende
l’opera migliore o peggiore di ciò che già era. Soprattutto non rende il film
ciò che non è: non è un’opera sulla città di Roma, un tributo alla Capitale, un
auspicio alla rinascita culturale ed economica del Paese.
Ciò che realmente è, e ciò che realmente si vede nel
film, ce lo ricordano Stefano Solinas sul Giornale e Marco Travaglio su Il
Fatto: quello di Sorrentino
“è il film più malinconico, decadente e reazionario degli ultimi anni, epitaffio
a ciglio asciutto sulla modernità e i suoi disastri”. Il referto medico-legale
in forma artistica di un Paese morto di futilità e inutilità, con una classe
dirigente di scrittori che non scrivono, intellettuali che non pensano, poeti
muti, giornalisti nani, imprenditori da buoncostume, chirurghi da botox, donne
di professione “ricche”, cardinali debolucci sulla fede ma fortissimi in
culinaria, mafiosi 2.0 che sembrano brave persone, politici inesistenti
(infatti non si vedono proprio). Una fauna umanoide disperata e disperante che
non crede e non serve a nulla, nessuno fa il suo mestiere, tutti parlano da
soli anche in compagnia e passano da una festa all’altra per nascondersi il
proprio funerale. Si salva solo chi muore, o fugge in campagna. È un mondo
pieno di vuoto che non può permettersi neppure il registro del tragico: infatti
rimane nel grottesco. Scambiare il film per un inno al rinascimento di Roma
(peraltro sfuggito ai più) o dell’Italia significa non averlo visto o, peggio,
non averci capito una mazza. Come se la Romania promuovesse Dracula a eroe
nazionale e i film su Nosferatu a spot della rinascita transilvana.